LE ALTALENE
Dal giorno in cui, sessant’anni fa, piovve terra sulla terra, e terra nell’acqua, e terra su duemila anime morte, di cui quattrocentottantasette bambini, a Erto il tempo ha continuato a oscillare tra dolore e speranza di rinascita, ricordi tragici e difficili presenti, memoria di una povertà aspra e dura ma viva e vitale che si riflette nel benessere vuoto e triste dell’oggi.
La voce narrante di questo romanzo lirico, struggente, ferocemente intimo, conduce il lettore in un continuo andare e venire su e giù nel tempo: il vecchio ricorda e racconta il suo mondo com’era, prima che la cieca avidità dell’essere umano lo distruggesse, e insieme racconta la sua vita, l’infanzia e la prima adolescenza, la spensieratezza di tre fratelli che si alterna alla incomprensibile violenza della vita famigliare, e che si deve misurare con il tormento di una comunità stravolta dal dolore. E poi la maturità e la vecchiaia, il presente, che porta su di sé il peso di una vita intera: e il simbolo di tutto questo sono le altalene del paese, che il narratore ricorda nel loro oscillare gioioso tra le grida felici dei bambini, e che vede oggi ferme, vuote, arrugginite.
Un racconto poetico e sentitissimo, in cui Corona lascia libero il flusso dei ricordi e si concede ai suoi lettori con assoluta e generosa sincerità. I suoi luoghi, Erto, la diga, la montagna, così come le persone della sua vita, vengono filtrati dal tempo passato, e forse perduto, in un romanzo-monologo dove la profondità e il fascino del racconto sono impreziositi da una voce narrante sempre più risolta e convincente.
Dal libro:
“Vi sono giorni nei quali tutto torna di colpo. Il ricordo si fa acuto, lucente, incandescente. Colpisce fulmineo come la brace lanciata dallo scoppio del ceppo. Vi sono giorni, invece, che uno dopo l’altro compongono i mesi. I mesi fanno gli anni, il tempo s’accumula in date, fatti, gioie, tragedie, dolori”.
“Ormai è tardi, quei vecchi silenziosi sono andati via da tempo, riposano in un luogo dove non servono le cose che in vita non ebbero mai. Lì non si beve, non si mangia, non si fatica, non si soffre nel fisico e nell’anima. In quel posto si vede e si ricorda il passato con dolcezza e con il senso preciso di non essere vissuti invano”.
“L’altalena della loro vita si muove soltanto lì, sotto i cieli delle stagioni, sostenuta dal logoro tronco pieno di ferite. Vi sono cicatrici profonde, lunghe, e larghe, memorie lasciate da saette. Altre sottili, segni di pennino a inchiostro rosso, tracce di bisturi raffinati, proprio per questo più dolorosi. Vi sono colpi d’asce e roncole, picconi e rasoi”.
“Nessuno scultore della propria vita sa quel che troverà intagliandola. Nonostante disegno, bozzetto e progetto, uscirà quel che sarà stato capace di cavare incontrando sassi, schegge e fil di ferro”.
“Quella era la loro famiglia: un’altalena che oscillava tristemente tra vite giovani bisognose d’affetto ed esistenze antiche piene di acciacchi, che tenevano lontana la morte solo per aiutare i nipoti. E lo fecero con puntiglio, passione e pazienza fino al termine del sentiero”.
“Il motivo di quei silenzi andava cercato altrove. Dalle esistenze antiche dei loro avi avevano ereditato miserie, disgrazie, sciagure, fatiche, patimenti, fame e sofferenze. Materiali che fanno amare la sospensione delle parole”.