IL CANTO DELLE MANÉRE
“Occorre sapere che ogni albero è buono. Non fa niente a nessuno, un albero, sta fermo in piedi, massimo muove la punta nel vento. Ma se uno con la scure gli tira via la natura, che è quella di stare in piedi, l’albero si muove. E muovendosi senza gambe, perché le ha tagliate, cade giù. Allora bisogna saper dove cade, farlo andare al posto giusto, se no batte e torna indietro con una forza che rompe il mondo”.
Lo sa bene quanto sia pericoloso il suo mestiere Santo Corona della Val Martin, il più grande dei boscaioli, colui che è capace di recidersi di netto una striscia di peli dal polpaccio senza intaccare la carne con un solo fendente della sua manéra, l’ascia che, per lui e tutti gli altri taglialegna, è come la spada per il samurai.
Se esiste ancora, nella narrativa contemporanea, uno spazio per l’epica, un’ampia porzione di questo territorio è occupata dall’opera di Mauro Corona. L’epica di Corona è spontanea, non è costruita né atteggiata secondo le pose postmoderne; è la voce profonda di un mondo in via di estinzione ma che ancora ha la forza di testimoniare la sua antica esistenza arcaica e brutale, eppure pervasa di una poesia capace di incanto e dolcezza imprevedibili.
Santo della Val è il classico eroe vittima del proprio orgoglio: per orgoglio si rovina la vita costringendosi ad abbandonare il paese natale e a errare nell’Esempón, ovvero in terra straniera, randagio per i boschi dell’Austria. Per orgoglio deve alzare ogni volta la posta delle sue sfide, rinunciando all’amore e destinato a non trovare mai pace.
Il mondo di Mauro Corona, che sempre più lettori hanno imparato a conoscere e amare, il mondo dei monti aspri, dei boschi bui, degli inverni gelidi e dei risvegli miracolosi delle stagioni, il mondo in cui i diritti della Natura sono più forti e più sentiti di quelli degli uomini, questa volta si fonde, in maniera imprevedibile e imperiosa, con un altro dalle leggi completamente diverse, quello della cultura. L’esilio amaro sarà infatti temperato dagli incontri con Hugo von Hofmannsthal, con Robert Walser e con una comunità di scrittori che, in una sorta di valle dell’Eden, mostreranno a Santo, sia pure per un attimo breve, come la vita possa essere anche un perenne, velenoso agone.
Dal libro:
“Il giovine continuava a lavorare nei boschi insieme al nonno Domenico, Sebastiano e gli altri taglialegna, quasi tutti più vecchi di lui. Ce n’era anche di giovini ma quelli veniva distribuiti due, tre per squadra, insieme ai vecchi, che imparasse il mestiere. Fare una squadra di soli giovini era come mandarli alla morte, o minimo a tagliarsi le gambe. Anche se era bravi co’ la manéra, aveva imparato a casa, in piccoli lavori, nel bosco si trattava di altra faccenda. Nel bosco, i pericoli era tanti quante le formiche nel formicaio, che non si vedono ma se tocchi il cumulo vengono fuori a milioni a cercarti”.
“Verso la fine di novembre, tagliare piante non faceva piovere foglie né levarsi vento di foglie. Gli alberi era nudi, coi rami a scheletro come ombrelli aperti senza tela. Dal fondovalle, attraverso i boschi trasparenti, si poteva vedere alte, sui costoni, le casere solitarie sparse qua e là, vicino alle fonti d’acqua. E, più in alto, le cime dei monti, limpide e dritte come coti d’argento. A quel punto tagliare piante non era più niente, mancava il ballo dei colori, gli sbuffi delle foglie e il fruscio della seta. L’albero, cadendo, faceva solo sfrash”.
“Ma al di là di motivi buoni o meno buoni, a premere Santo verso il paese era le radici elastiche che diceva Piero. Radici slungate al massimo, dove sfregava il vento della memoria facendo musica di casa. Ormai aveva quasi sessant’anni, li compiva il ventun settembre e adesso era maggio. I primi di maggio. Giorni adatti a pensare e tener la testa bassa. Maggio è mese di malinconie per chi sta lontano da casa. Maggio e aprile è mesi che ti mostra i tempi di quando si era bambini e si correva per prati e boschi”.