I FANTASMI DI PIETRA
Erto, un paese abbandonato, silenzioso, raggelato in un’istantanea il 9 ottobre 1963 quando il fianco del Monte Tóc precipitò nel lago del Vajont. Eppure quelle case, quelle cucine, quelle stalle, di cui restano solo muri avvolti da edere e ortiche, sono ancora abitate.
È una popolazione di fantasmi che Mauro Corona evoca ripercorrendo porta a porta, casa per casa, le quattro strade deserte che un tempo risuonavano di voci, di strumenti da lavoro, della vita di ogni giorno. Una tazza, una falce, una gerla, un secchio da mungitura, una bottiglia lasciata a metà di un vino che dava forza e gaiezza; ogni oggetto richiama nella memoria di Mauro Corona un personaggio, un fatto buffo o tragico, una leggenda, una storia d’amore o di terrore, come un vento di tempesta o un soffio di primavera.
Camini spenti senza fuoco né cenere, dalla cui bocca escono voci perdute per narrare, prima che il tempo le cancelli, antiche vicende di spettri, di animali magici, di piante venefiche e taumaturgiche, di diavoli ghignanti e scherzosi.
Ne nasce un racconto commovente ed esaltante che si snoda, come nel celebre concerto di Vivaldi, lungo l’arco delle quattro stagioni: inverno, primavera, estate, autunno. Schiere di anime riprendono corpo e ci uniscono a loro per un breve istante, mosse da un’inappagata sete di vita. I bambini scomparsi tornano così a scivolare veloci sulle slitte, spiriti maligni ansimano nelle soffitte. La Vecia de Or intanto prega una Madonna dal volto di uomo, burlando a morte chi cerca il suo tesoro. Nella casa del Solitario si gioca alla morra: mai soldi, solo vino. In un’ampolla è conservata l’acqua in cui si sciolse il corpo di Neve Corona Menin, la fanciulla di ghiaccio, mentre la voce del piffero magico risuona nelle notti di luna piena.
Con I fantasmi di pietra Mauro Corona ha scritto l’Antologia di Spoon River di un paese perduto chiamato Erto.
TRADUZIONE: in spagnolo.
Dal libro:
“Ormai è l’autunno, tutto torna a dormire, tutto scompare nella pace dell’inverno imminente. Anche i rumori vanno in letargo come ghiri nelle tane. Le case tacciono, ascoltano, sentono la neve depositarsi sui tetti. Quelle senza tetto la ricevono dentro i muri, sui solai, nelle cucine distrutte. La visita della dama bianca entra nel cuore delle case sgangherate. Il paese abbandonato guarda al tramonto con gli occhi malinconici delle finestre senza vetri, sospira adagio con la bocca delle porte sfondate. Era un bel paese, il nostro, adesso non c’è più”.
“Una rampa di pochi metri con scalini in pietra grigia mi porta all’inizio della Via San Rocco. A destra l’altra fontana, una grande vasca di marmo rosso, scavata quasi un secolo prima dal mitico scalpellino Jaco dal Cuch”.
“La storia di Vittorio Corona, che aveva scalato il campanile di Erto solo con mani, piedi e coraggio, ci entrò nella testa e non si mosse più. Tutti i giorni provavamo a salire un po’ più in su ma, dopo qualche metro, la paura ci faceva tremare le gambe, gli avambracci s’indurivano, dovevamo tornare a terra”.
“Conservò fino alla morte dignità e decoro. Vestiva bene. Per quanto gli consentivano le magre finanze; cercava di essere elegante. Sovente sfoggiava bizzarre cravatte che qualcuno gli regalava più per ridere che per affetto. Calzava sempre gli scarponi. Spesso dormiva nel fienile. Prima di coricarsi si levava le calzature: «Per rispetto del fieno» mi disse. Era alto, magro, con la neve del tempo sui capelli, lunghi e lisci, pettinati all’indietro”.