GLI OCCHI DEL BOSCO
Il ritratto di un mondo duro e poetico, animato di una sapienza antica e indispensabile.
Al centro della poetica di Mauro Corona c’è il legame indissolubile tra l’essere umano e la Natura. Legame che le abitudini di vita metropolitane sembrano negare, ma che non può sfuggire all’uomo dei boschi e delle montagne, abituato ad ascoltare i racconti delle rocce su cui arrampica, del legno che intaglia, dello stormire degli alberi e delle orme degli animali.
Il bosco è magico, ha i suoi mille occhi e le sue mille voci. Bisogna essere persone sensibili ed attente per saperle ascoltare. Mauro Corona proprio da quegli occhi e da quelle voci ha raccolto le storie di quando il mondo era giovane, la puzzola vanitosa, il riccio liscio e il ghiro insonne fino ad arrivare a capire che, molto meglio degli esseri umani, gli animali conoscono il mistero della vita e della morte. E possono insegnarcelo.
Un volume che raccoglie i racconti di “Cani, camosci, cuculi (e un corvo)” e di “Storie del bosco antico”.
Dal libro:
“Passarono tre giorni. La neve continuava a cadere turbinando nel vento, fino a raggiungere i tre metri. Il paese era sepolto da un silenzio inquietante. La domenica mattina si udì provenire dal Calderón un boato che scosse l’intera valle. La valanga era partita dalle rampe di Casera Vecchia, il punto più alto. La gente non la vedeva perché nevicava e allora restò con il fiato sospeso mentre il rombo s’avvicinava. Tutta la montagna tremava. Molti pregavano la Madonna della Neve Alta che fermasse in tempo quel treno di neve, o sarebbe stata la fine”.
“Si impresse bene in testa la direzione, perché intendeva andare verso quella vetta. Aveva da tempo finito il pane e salame che portava nella sacca. Quella sera digiunò. Dopo aver acceso un fuoco, spezzò le estremità dei rami e costruì un giaciglio alla base del larice. Poi si dispose con speranza all’attesa del nuovo giorno. La nebbia lo imbiancava con pennellate di calcina e quella calcina non dava segni di muoversi. Immaginava il cielo oltre la nebbia, con le stelle accese e la luna piena. Provò a pensare delle vie di fuga, ma la fantasia gli regalava soltanto paesaggi e sentieri della sua Val Zemola. Dove si trovava non era Val Zemola ma le selvagge Tronconere, dimenticate da Dio e dagli uomini”.
“Ma poco per volta il ciuffolotto rispondeva sempre meno ai dialoghi dell’amico. Al terzo giorno il camoscio lo chiamò, ma l’amico non rispose. Allora si mosse un poco per vedere cosa succedeva e sentì un leggero toc. Il ciuffolotto era caduto giù, morto stecchito, ucciso dalla fame. Grazie al suo sacrificio il camoscio si salvò ma pianse a lungo. Da allora il Signore fece nascere tutti i ciuffolotti maschi con il petto color sangue di camoscio”.