La voce degli uomini freddi

LA VOCE DEGLI UOMINI FREDDI

C’è un popolo che vive di stenti in una terra ostile. Una terra in cui nevica sempre, anche d’estate. Le valanghe incombono dalle forcelle dei monti e le api sono bianche. E gli esseri umani hanno la carnagione pallida, il carattere chiuso, le parole congelate in bocca. Però è gente capace di riconoscenza, di solidarietà silenziosa, uomini e donne con un istinto operoso che li fa resistere senza lamentarsi. Essi lavorano con alacrità e fierezza, pronti a godere dei rari momenti di requie, della voce allegra del loro “campo liquido”, il torrente che, scorrendo sul fondo della valle, dà impulso a segherie e mulini.

E proprio l’elemento acqua – neve allo stato liquido – come una penelope dei ghiacci, permea tutte le azioni degli uomini freddi: da un lato ne mette in moto la vita, dall’altro la distrugge, innescando il dramma innevato sospeso sopra il fondovalle.

Mauro Corona ci ha abituato alle narrazioni corali, alle epopee umili di gente che avanza compatta con le proprie vite che, come scriveva Ungaretti dei morti: “Non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo”.
All’armonia aspra ma naturale degli uomini freddi si contrappone il ritmo disumano delle “città fumanti”, dove ci sono tanti meno disagi ma nessuno di quei valori che nascono dalla comune sofferenza. Il lettore ritroverà in questo libro temi cari alla contestazione contro lo sviluppo senza sosta, ma senza l’asprezza della denuncia. Questo romanzo è soprattutto una fiaba. Sotto la sua trama è facile riconoscere una vicenda amara e nota: la tragedia del Vajont. Il bruciore di una ferita reale e incurabile che solo spostandosi su un altro piano, quello dell’invenzione, della creazione fantastica riesce a ricomporsi, a rendersi dicibile, a diventare superamento, speranza, catarsi.

Dal libro:

“Così andarono le cose. Ancora in età remote i primi uomini freddi si misero a costruire le strane scatole e i tubi di legno che con il tocco o il soffio del fiato producevano suoni. Quei suoni altro non erano che voci. Voci di angeli artigiani, buoni e pazienti, venuti sulla Terra a comunicare con quella povera gente. Non per evitargli sofferenze e disagi, che servivano a migliorarli, ma per consegnar loro il sapere delle piccole cose, la divina capacità di elevarsi con le mani”.

“Nel paese dei monti pallidi, quando due sentivano di essere lo stesso stampo e il controstampo uno dell’altra, allora l’uomo le regalava un anello. Un cerchietto speciale cavato dalla base dei rami di susino. Il susino è un albero che definivano legiadìth, cioè che lega, tiene stretto, ha legno tenace, duro ma elastico, si torce senza rompersi”.

“Nonostante nevicasse tutto l’anno, lassù non mancava nulla e loro stavano bene. Avevano boschi, montagne, rocce, grotte di cristalli. E una caverna di memorie. Scorreva un torrente puro, pieno di trote e rane nelle pozze. In quel torrente da ogni lato andavano a infilarsi ventun ruscelli di acqua gelata. I ruscelli scendevano dalle montagne e lucevano come trecce d’argento, liberando ognuno la sua canzone”.

“Sapevano leggere i libri della Natura, e ogni tanto li toglievano dagli scaffali del tempo e li sfogliavano per rinfrescarsi la memoria”.

Pubblicazione

2013

Casa Editrice

Ed. Mondadori

Pagine

235

Note

PREMIO RIGONI STERN 2014, FINALISTA CAMPIELLO 2014.
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