COME SASSO NELLA CORRENTE
In una stanza immersa nella penombra una donna, giunta all’autunno della vita, si muove lentamente appoggiandosi a un bastone. Intorno a lei sculture di ogni tipo. La donna le sfiora e insegue il ricordo di un uomo. Un uomo schivo, selvatico, che però ha saputo rendere eterno nel legno il sentimento che li ha uniti.
Ogni statua evoca un episodio della vita avventurosa che quell’uomo ha vissuto e amava condividere con lei: le difficoltà di un’infanzia di povertà e abbandoni, in cui la più grande gioia era stare con i fratelli e i nonni attorno al fuoco, la sera, imparando a intagliare legno, o sentire la vibrante intensità della Natura durante una battuta di caccia.
Ogni angolo levigato delle sculture fa affiorare in maniera dirompente l’orgoglio e la rabbia di quel giovane che, crescendo, aveva voglia di farcela da solo, cancellando le ombre del passato che lo tormentavano. Ma quei profili, quelle figure che ancora profumano di bosco, raccontano anche che l’amore può trovare pieno compimento solamente nella trasfigurazione, nel sogno, perché l’unica via per non rovinare quel sentimento vero e cristallino è allontanarlo dalle mani dell’uomo che, nella sua intrinseca incapacità di essere felice, finirebbe inevitabilmente per sprecarlo.
Dai boschi che Mauro Corona ci ha insegnato ad ascoltare e ad amare si leva in questo romanzo una voce nuova, per molti versi inaspettata, a tratti dolente ma potente ed energica.
TRADUZIONE: in sloveno, in olandese, slovacco, rumeno.
Dal libro:
“Di notte, nelle eterne notti senza sonno, ascolta una storia, la loro fiaba. Ripete nella mente i racconti che ha udito. In quei brevi segmenti di sogno, le fiorisce davanti il passato, visioni recenti come allora, come se tutto fosse uguale, come se non fosse passato tanto tempo”.
“L’indomani spuntarono facce di terrore, s’alzarono grida, intorno c’era un paesaggio d’argilla, ossa scarnificate, colli disossati, boschi cancellati, cadaveri. E un colore nero di morte lungo la valle. Si incrociavano sguardi agghiaccianti, tetti divelti, rovine e macerie. Tra i miasmi di morte qualcuno domandava: «Dove sono i miei?». Quella mattina capirono che era morta una valle, cancellata coi paesi e la gente che teneva stretti nel suo abbraccio millenario.
“A distanza di oltre mezzo secolo l’uomo cercava d’intuire lo stato d’animo della madre che aveva lasciato tutto. Di certo non rideva mentre abbandonava alla deriva tre pulcini senza protezione. Tre suoi pulcini, consegnati ad altri per seguire il destino di una scelta istintiva e lacerante. Quella donna aveva osato rompere il meccanismo del non agire per non ferire, del non strappare un filo per non danneggiare l’intero tessuto. Aveva avuto una grinta di fare quello che la maggior parte dell’umanità non fa: andare contro corrente, contro tutto e tutti, lo aveva fatto cercando un’oncia di felicità”.